MALI: attacco jihadista

Il 17 settembre 2024, la capitale del Mali, Bamako, è stata teatro di un duplice attacco jihadista di vasta portata, rivendicato da Jamaʿat Nuṣrat al-Islām wa-l muslimīn (JNIM), un'organizzazione militare e terrorista di ideologia salafita jihadista, affiliato ad al-Qaeda.

Gli obiettivi principali sono stati la scuola della gendarmeria situata nel distretto di Faladié e la base militare 101, all’interno dell’aeroporto di Bamako. Questi attacchi non solo hanno causato numerosi morti e feriti, ma hanno anche avuto un forte significato simbolico.

Gli attentati sono avvenuti nel giorno del 64º anniversario della fondazione della gendarmeria maliana, creata il 17 settembre 1960. Questo dettaglio evidenzia la natura attentamente pianificata degli attacchi, che miravano a colpire il Mali non solo militarmente ma anche sul piano morale e simbolico.

Anche la base militare 101, situata presso l’aeroporto, ha subito pesanti danni.

I video diffusi dallo Jnim mostrano gli attaccanti mentre sparano nell’aeroporto vuoto e danno fuoco all’aereo presidenziale.

Gli attacchi arrivano all’indomani di un importante discorso del colonnello Assimi Goïta, presidente di transizione del Mali e attuale leader dell’Alleanza degli Stati del Sahel (AES), in cui affermava che i gruppi terroristici nel Paese erano stati “notevolmente indeboliti”. La risposta dello Jnim è stata immediata e brutale, dimostrando una capacità d’azione che non si limita più alle aree rurali del nord e del centro del Mali, ma che ormai colpisce il cuore stesso della capitale.

Negli ultimi anni, Bamako è stata colpita da diversi attentati, tra cui il rapimento di un prete tedesco nel 2021 e l’attacco al campo militare di Kati. Tuttavia, il ricordo più drammatico per la città risale al 2015, quando attentati terroristici colpirono il bar-ristorante La Terrasse e l’hotel Radisson, causando 25 morti.

Ad agosto dello scorso anno una vasta operazione dello JNIM assediò la città di Timbuktu.

Secondo il Global Terrorism Index: «Il Sahel è il centro dell'attività terroristica globale e, negli ultimi 15 anni, è aumentata del 2000%».

In questo scenario i gruppi legati ad Al-Qaeda e all’ISIS espandono i loro attacchi in una delle regioni più povere del mondo.

Questo quadro non deve affatto sorprendere.

Già in precedenza era stato detto di come il Sahel stia diventando il nuovo Califfato.

(https://www.angelogalantino.com/blog/sahel-il-nuovo-califfato)

La sovrapposizione dei gruppi criminali con quello jihadisti, evidenziata in INFIDEL, illustra la connivenza di entità differenti che convogliano in finalità comuni.


Gli eventi del 17 settembre 2024 segnalano un’escalation senza precedenti e mettono in evidenza la vulnerabilità della capitale maliana, anche di fronte a un nemico che sembra operare con crescente impunità, nonostante le dichiarazioni delle autorità maliane che cercano di rassicurare la popolazione affermando che la situazione è sotto controllo.

Oggi più che mai è reale l’espansione dei gruppi jihadisti in Africa che stanno, sempre più rapidamente, consolidando il Califfato del Sahel nell’immobilismo internazionale pervaso da una perdurante cecità geopolitica.


(Fonte notizia: focusonafrica.info)

Le mani della Jihad in Europa e la disumanizzazione del dolore.

Gli attentati in Europa non sono mai realmente cessati ed è pertanto scorretto disquisire di “nuova ondata terroristica”.

Nella distrazione globale, un 26enne originario della Siria ha confessato di essere l'autore dell'attacco con coltello di venerdì sera a Solingen che ha provocato la morte di tre persone e il ferimento di altre otto durante le celebrazioni per il 650esimo anniversario della fondazione della città. Nella notte l'uomo, a poco più di 24 ore dall'attentato, si è consegnato alla polizia. L'attacco era già stato rivendicato dall'Isis con un messaggio diffuso in un comunicato su Amaq, il canale di notizie dell'organizzazione terroristica: «L'attentatore contro l'assemblea cristiana era un soldato dello Stato Islamico: è una vendetta per i musulmani in Palestina e ovunque».

L’attentato di venerdì sera è solo l’ultimo di una serie di azioni, molte delle quali “sfuggite” ai media nazionali, delle quali lo Stato Islamico ne ha rivendicato la paternità.

Come può un gruppo terroristico, privato della sua forza territoriale, continuare a mietere vittime a migliaia di km di distanza?

Perché le precedenti azioni sono passate in sordina senza destare attenzione e sgomento?

La risposta alla prima domanda deve essere ricercata nella strategia degli attentati “per procura”. Lo Stato Islamico, pur non avendo alcun contatto diretto con gli autori, accoglie le loro intenzioni facendole proprie.

In sostanza è sufficiente l’esecuzione di una azione funzionale alla causa jihadista e la volontà di perorarla per avere il “titolo” di adesione.

In merito alla seconda domanda e al perché certi eventi passino in secondo piano, la risposta è estremamente semplice: c’è una assuefazione al dolore, all’attacco terroristico; una pacata accettazione di ciò che, fino a pochi anni fa, generava orrore.

Da questo punto di vista lo Stato Islamico ha vinto: ha disumanizzato il nostro dolore rendendoci più simili a loro.

La mattanza di Mogadiscio.

È di almeno 32 morti e 63 feriti il bilancio dell’attacco, rivendicato da al-Shabab, che la notte del 3 agosto ha preso di mira la spiaggia “Lido Beach” di Mogadiscio.

I terroristi sono arrivati dal mare con una strategia simile a quella adoperata a Sousse.

L’attacco sarebbe iniziato intorno alle 19.30 con un primo assalitore che si sarebbe fatto esplodere mentre gli altri avrebbero aperto il fuoco sulle persone presenti.

I video mostrano decine di morti e feriti sulla spiaggia.

Un secondo commando composto da almeno 4 persone avrebbe tentato di fare irruzione in un hotel poco lontano. L’intervento delle forze di sicurezza ha impedito che i miliziani di al Shabaab potessero compiere un ulteriore strage.

Lido Beach è una delle spiagge più note e frequentate di Mogadiscio, anche da turisti e personale diplomatico e governativo e negli anni scorsi è stata teatro di diversi attentati terroristici. L’ultimo nel giugno 2023, quando alcuni terroristi di al-Shabaab  presero d’assalto un hotel sulla spiaggia.

Lo scenario del Golfo di Aden è in perenne evoluzione per la sua centralità strategica e per le nuove risorse energetiche.

La Somalia, in particolare, è un campo di battaglia su più fronti.

Il Somaliland, ex territorio britannico, ha dichiarato la propria indipendenza dalla Somalia nel 1991, atto non riconosciuto dalla comunità internazionale.

Il 28 dicembre, il Governo somalo, ha respinto la richiesta dei diritti petroliferi in Somaliland della Genel Energy, compagnia con sede nel Regno Unito.

Al tempo stesso non si placa l’offensiva del gruppo jihadista al-Shabaab tanto che pochi giorni fa, la Turchia ha approvato una mozione  per dispiegare le sue forze armate in quel Paese.

La Somalia è caratterizzata da una forte instabilità, con al-Shabaab che costituisce la principale minaccia. Dal 2007, il gruppo jihadista si è impegnato in una violenta campagna contro il governo somalo e le forze internazionali che lo supportano, causando migliaia di vittime.


Fonte: sonna.so

Attentati di Madrid: 20 anni dall’evento che segnò l’inizio del terrore jihadista in Europa.

Ieri ricorreva il ventennale degli attentati di Madrid dell'11 marzo 2004, anche conosciuti come 11-M.

Quel giorno una serie di attacchi terroristici di matrice islamista sferrati nella capitale spagnola a diversi treni locali, provocarono 192 morti (di cui 177 nell'immediatezza degli attentati) e 2.057 feriti. Sono considerati i più gravi attacchi alla popolazione civile dopo la seconda guerra mondiale, insieme agli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, allʼinterno dei confini dell'Unione europea.

Al-Qaeda rivendicò la responsabilità degli attacchi, affermando che erano una risposta al coinvolgimento di Madrid nella seconda guerra del Golfo.

Prima di allora l’Europa aveva sottovalutato il pericolo jihadista ritenendo improbabili attacchi sul suolo europeo.

(Fonte immagine: elpais.com)


Operazione Aspides e gli Houthi: facciamo chiarezza.

Il membro dell'ufficio politico degli Houthi, Mohammed al-Bukhaiti, ha dichiarato:

«Noi non consideriamo l'Italia un Paese ostile, ma se partecipa all'aggressione diretta contro lo Yemen, insieme all'America e alla Gran Bretagna, allora si pone in una posizione di ostilità. A meno che non si consideri il bombardamento di Roma da parte di un Paese straniero come un'azione positiva».

Chi sono gli Houthi? Quanto c’è da temere?

Il termine Houthi si riferisce al movimento Ansar Allah, noto anche come Ansarullah, che significa “partigiani di Dio” in arabo. Il movimento houthi si è dato questo nome nel 2011 durante la “primavera yemenita” per parlare a tutti gli yemeniti. Si tratta di un gruppo armato e politico che si trova nell'estremo nord dello Yemen e che è legato al nome di una famiglia, gli Houthi, che ha avuto un ruolo di leadership cruciale nella sua storia fin dall'inizio degli anni '90.

Il movimento Houthi è composto principalmente da combattenti della confessione zaydita, una branca minoritaria dell'islam sciita. Nel 1992 viene fondata la “Gioventù credente” (al-Shabāb al-muʾmin) nel governatorato di Sa'ada, nel nord dello Yemen, con l'obiettivo di portare avanti la rinascita dello zaydismo nel paese e farne cessare l'emarginazione politico-religiosa. Il gruppo è noto per le sue posizioni marcatamente anti-USA e anti-Israele e ha combattuto contro il regime di Ali Abdallah Saleh, presidente e dittatore dello Yemen dal 1990 al 2012. Gli Houthi hanno preso il controllo di importanti parti del paese e hanno combattuto contro il governo yemenita fino a un cessate il fuoco nel 2010 (le guerre Sa’da).

Nel 2015, gli Houthi sbaragliarono i filogovernativi e presero con la forza i palazzi del potere. Il presidente Abd Rabboh Mansur Hadi riuscì a mettersi in salvo ma l'ex capo di Stato Saleh fu ucciso nel 2017 in un tentativo di fuga da San'a. Nel biennio 2014-15, si cristallizzò uno scenario politico-militare bipolare in Yemen, con gli Houthi sostenuti dall'Iran e il governo riconosciuto dalla comunità internazionale spalleggiato da una coalizione internazionale guidata dall'Arabia Saudita. L'esecutivo guidato da Hadi lasciò la capitale San'a per trasferirsi nella città portuale di Aden.

Attualmente, tralasciando la questione del Consiglio di transizione del sud, lo Yemen è diviso in due parti pressoché autonome: una controllata dagli Houthi ed una sotto il controllo del Consiglio Presidenziale dello Yemen guidato da Rashad al-Alimi succeduto ad Hadi.

Nel maggio 2022 c’è stato l’invio di numerose truppe statunitensi in Somalia.

Ufficialmente per combattere il gruppo terroristico di Al-Shabaab.

La realtà era però diversa (per approfondimenti https://www.facebook.com/share/p/vLqMD7pm7Q5ixvyV/?mibextid=WC7FNe).

La Somalia è difronte allo Yemen, Paese fondamentale nello scacchiere geopolitico dell’area.

Lo Yemen, che è il Paese più povero del mondo e non solo del Medio Oriente, rappresentava già allora un obiettivo statunitense in ragione del sostegno iraniano al movimento sciita degli Houthi.

Dall’altra parte, Arabia Saudita e, più o meno pubblicamente, Stati Uniti bombardano lo Yemen dal 2015 per evitare che si installi definitivamente un governo filoiraniano.

La vera ragione dell’interesse globale verso quell’angolo polveroso e povero del mondo è sempre stata ben lontana da motivi religiosi (contrasto sciiti-sunniti), democratici o umanitari.

La ragione reale, che tutto il mondo ora comprende e del quale avevo già scritto (https://www.facebook.com/share/p/pBwMBj58EoLuykD1/?mibextid=WC7FNe), risiede nell’importanza strategica ed economica dello stretto di Hormuz.

A novembre dello scorso anno, il generale di brigata Yahya Saree, portavoce delle forze armate yemenite Houthi, aveva annunciato, dalla capitale Sana'a, la promessa di un forte sostegno al popolo palestinese nei territori occupati con il lancio di un numero considerevole di missili balistici insieme a numerosi droni, prendendo di mira varie località nei territori palestinesi occupati.

Con quella dichiarazione di guerra, lo Yemen era entrato ufficialmente nel conflitto israelo-palestinese con l’obiettivo che Saree aveva riassunto dicendo «Continueremo a effettuare attacchi di qualità superiore utilizzando missili e droni fino a quando l'aggressione di Israele non si fermerà».

Oggi stiamo assistendo a ciò che il governo Houthi aveva anticipato e le cui dichiarazioni non avevano avuto il giusto risalto sui media europei.

Come narrato in un articolo di quel periodo (https://www.angelogalantino.com/blog/lo-yemen-dichiara-guerra-a-israele), l’entrata ufficiale dello Yemen nel conflitto israelo-palestinese, avrebbe portato ad ulteriori conseguenze nel medio periodo con lo scontro religioso, politico e militare dei due blocchi in cui l’Iran è il Paese leader del mondo sciita mentre l’Arabia Saudita lo è di quello sunnita.

Nello scenario del Medio Oriente, si battono per la supremazia in una guerra che va oltre i confini dei due Paesi.

Entrambi finanziano moschee e università o armano formazioni militari.

Una profonda rivalità che trasuda di interessi economici come visto per il controllo dello Stretto di Hormuz in cui ogni giorno passano 21 milioni di barili di petrolio, oltre il 20% dell’intero consumo mondiale.

Una rivalità accentuata con gli accordi di Abramo e la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Arabia Saudita.

Ad oggi gli Houthi hanno attaccato solo navi statunitensi o altre navi che portavano equipaggiamenti ad Israele.

Non sono stati segnalati attacchi a mercantili europei diretti altrove tanto che al-Bukhaiti ha dichiarato che “l'obiettivo degli attacchi nel Mar Rosso non è quello di affondare o sequestrare le navi legate allo Stato ebraico piuttosto spingerle a cambiare rotta per aumentare il costo economico per Israele”.

Gli Houthi rappresentano tecnicamente il governo dello Yemen o quantomeno una parte del paese.

Farli passare per dei meri briganti ed equipararli ai pirati somali è, nella migliore delle ipotesi, un errore di narrazione geopolitica.

Nella peggiore è una distorsione di comodo volta ad accettare una risposta armata da parte di Paesi che, teoricamente, non potrebbero.

Attaccare gli Houthi, piaccia o non piaccia, equivale a dichiarare guerra allo Yemen.

Ciò renderebbe inevitabilmente l’Italia un obiettivo militare, soprattutto per quanto concerne le navi impegnate nell’operazione “Aspides” e le truppe schierate in Libano.